RAI Storia ha dedicato alcune puntate alle vicende dei militari italiani che dopo l’infausto otto di settembre del 1943 vennero deportati in Europa centrale dalla Wehrmacht, con lo stato giuridico ibrido di “Internati Militari Italiani”, quindi non protetti dalla Convenzione di Ginevra. Fra di loro vi fu un ufficiale, che sarebbe poi divenuto un personaggio di spicco della topografia.
Giuseppe Birardi, classe 1918, capitano di artiglieria in servizio permanente effettivo, venne preso prigioniero dopo il non negoziato armistizio fra Regno d’Italia e Comando Superiore Alleato, in Costa Azzurra, dove era con la sua batteria, ed inviato in un campo di concentramento in Germania, dopo lunghe, faticose e dolorose peregrinazioni in Polonia. Non avendo aderito alla Repubblica Sociale Italiana, per la fedeltà al giuramento fatto “al bene inseparabile della Patria e del Re”, visse la dura esperienza di molti altri soldati italiani catturati sui vari fronti anche da inglesi, australiani, americani, francesi e sovietici, che non vollero “collaborare” con gli Alleati. Mi sia permesso di ricordare qui, per la coincidenza che ne traspare, le vicende di quello che sarà poi collega e amico di Birardi nell’Istituto Geografico Militare di Firenze: Mario Carlà, prigioniero a Hereford nel Texas in un “Fascist Criminal Camp” (1), (2). Anche qui, fedeltà all’onore militare e rifiuto di collaborare, stavolta con gli Alleati.
Verso la fine delle ostilità, all’inizio del ’45, il capitano Birardi venne inviato con altri e come “libero lavoratore” ad Altona, nei pressi di Amburgo, così come racconta lui stesso nel bel libro “Terra Levis” (3), che chi scrive ha recensito a suo tempo su due riviste specializzate. Altona era stata risparmiata dai terribili bombardamenti alleati, che invece avevano distrutto quasi totalmente Amburgo; a proposito: qualcuno ricorderà che nel dopoguerra venne prodotto su regia di Vittorio De Sica un (brutto) film, “I sequestrati di Altona” che aveva per l’appunto come sfondo la cittadina del Nord della Germania. Nel centenario della nascita di Giuseppe Birardi, mi sia concesso di ricordarlo qui, dato che il Direttore di questa Rivista fu suo fedele collaboratore alla Sapienza.
Tornato a Firenze, il capitano Birardi trovò i due fratelli, Nino, ufficiale medico e Daddo ufficiale di fanteria, internati nel campo di Coltano perché avevano servito nell’Esercito della Repubblica Sociale. Andò in quel campo, con lo zaino di prigioniero di guerra sulle spalle e con rabbia ne chiese la liberazione, che di fatto avvenne poco dopo. Rinunciò poi alla carriera militare originaria, si iscrisse all’università e ne uscì ingegnere, come anticipa nel libro citato: “…Sono stato all’Istituto Geografico Militare a comprare le carte al venticinquemila; c’è un ufficio vendite in via Giusti, mi ha servito un tenente colonnello anziano, il quale è stato mezz’ora a batter a macchina moduli e fattura. Un tenente colonnello a fare quel mestiere! Si sta proprio freschi, come è ridotto l’Esercito. Ma già mi voglio iscrivere a Ingegneria, appena torno da Montenero, e dare le dimissioni da ufficiale: non voglio fare la fine di quel colonnello là”.
In realtà non lasciò l’esercito, anzi vi ci rimase nel corpo tecnico proprio all’Istituto di via Cesare Battisti. Io lo conobbi durante una delle tante sedute del consiglio direttivo della Società Italiana di Topografia e Fotogrammetria, e divenimmo presto amici. Frequentammo assieme parecchie edizioni delle “Settimane Fotogrammetriche” a Stoccarda; Birardi conosceva bene il tedesco (ne dà prova nel suo libro,, ove ci sono molte citazioni perfette in tale lingua) e chiamava le allora piccole mie due figlie sgambettanti sui pattini davanti allo Institut für Photogrammetrie del Politecnico di Stoccarda in Keplerstaβe “kleine Hexen”, piccole streghe. In una delle famose “Settimane”, su mia indicazione venne invitato ad un “party” del famoso professor Friedrich Ackermann, patrono della manifestazione, ed ebbe così occasione per parlare del progetto di un ortoproiettore del quale farò cenno qui avanti..
Giunto al grado di generale di brigata, Birardi decise di partecipare al concorso per professori universitari e vinse facilmente. Destinato alla Sapienza, sulla cattedra che già fu di Boaga, si distinse per la fervida sua attività di ricerca, oltre che per quella di ottimo docente: progettò un ortofotoproiettore a camera singola, del quale si interessò a suo tempo la tedesca Carl Zeiss. La vicenda non ebbe seguito perché si era ormai vicini all’era digitale. Birardi partecipò a tutti i convegni della SIFET, della quale era socio sin dall’inizio ed organizzò egregiamente quello di Numana nel 1978. Molte le pubblicazioni, sugli argomenti più vari, dalla topografia alla fotogrammetria; di particolare valore il suo “Corso di Geodesia, Topografia e Fotogrammetria”, uscito nella collezione dei testi tecnici dell’IGM a Firenze già nel 1867, quando l’autore rivestiva il grado di Maggiore.
Va ricordato, ai proposito della tecnica ortofotproiettiva, la lunga discussione che avvenne a Bolzano durante il convegno SIFET, che vide impegnati da una parte Birardi e il dottor Dietrich Berling della Zeiss, e dall’altra Ermenegildo Santoni: decisamente avverso alla tecnica ortoproiettiva, che definì “grossolana”. Anche se poi l’anno successivo dalla Galileo uscì lo ”Ortofotosimplex” proprio su brevetto Santoni del 24 dicembre 1968, quindi an tecedente alla discussione di Bolzano.
Il ritratto di Giuseppe Birardi nel 1945, che mostro qui sotto, è quello che compare nel suo libro più sopra citato ed è dovuto a un suo compagno di prigionia; la copia delle lettera che Birardi scrisse al presente autore riguarda le esse pur citate recensioni del bellissimo suo libro. Libro che potrebbe essere distribuito nelle scuole perché sincero, privo di acrimonia, onesto e fotografante (anche con le numerose immagini che lo corredano) la situazione drammatica di oltre seicentomila italiani, lasciati nelle mani dell’ex- alleato da un governo irresponsabile, dopo l’onta di un armistizio sottoscritto senza darne onestamente notizia preliminare alle altre due potenze del Tripartito. Ma di ciò si occupa la storia.
Candidato alla presidenza della SIFET nel 1986, e fortemente sostenuto da molti colleghi fra cui chi scrive, non venne eletto. Ciò anche per qualche ostilità che aveva collezionato per via del suo carattere sincero e privo di ipocrisie, da buon toscano sempre pronto alle battute salaci: gli venne preferito Enrico Vitelli che così assumeva tale carica per la seconda volta.
Forse anche per i postumi di una malattia contratta durante la prigionia, una brutta pleurite ovviamente superata senza cure mediche, Giuseppe Birardi scomparve dopo breve ricovero in ospedale, nel 1997. Chi scrive ricevette una sua ultima telefonata, nella quale con voce già poco intellegibile gli manifestava le speranze di una rapida guarigione; e gli ricordava il tempo in cui aveva ospitato nel suo Istituto a Roma, la commissione (cui lui non apparteneva) del concorso nel quale lo scrivente era candidato.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Selvini, AttilioTopografi e fotogrammetri fra cronaca e storia. Maggioli ed.; Rimini, 2016.
- Selvini, Attilio In ricordi del Generale Mario Carlà. Boll. SIFET, 2013.
- Birardi, GiuseppeTerra Levis.Stamp. Edit. Parenti, Firenze, 1989
Attilio Selvini, già presidente SIFET